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“Come rivoluzione, il nome mio sona: Enrico Bronzi e il suo violoncello a Prato” di Enrico Martelloni

Capita di non voler affrontare il foglio bianco davanti ai nostri occhi per la soverchiante forza che la musica offre all’ascoltatore. Per chi non ha potuto assistere alla serata di giovedì 28 novembre al Politeama, avrà solo un’immagine descrittiva del concerto proposto. In programma erano musiche di Carl Philipp Emanuel Bach, secondogenito di J.S. e Haydn; Franz Joseph, per la precisione. Haydn, come poi Beethoven, ebbe molto in stima il collega prussiano alla corte dell’ambizioso Federico II il Grande. La guerra dei sette anni, prototipo di guerra mondiale, si era posta nel mezzo tra i due. L’arte, sempre riesce, però, a beffare quelle tragedie militari, siano esse per capricci dinastici come in uso era all’epoca, che in quelle successive, per motivi commerciali e di conquiste territoriali, come fu da quella in poi. Doveva essere un’epoca di grandi cambiamenti, non solo per le tipologie dei conflitti. Tirava aria di novità in quel secolo, e la musica non era da meno. Forse, quello fu il secolo dove essa maggiormente mutò stile e sentimento; perciò, l’abbinamento tra i due compositori, distanti nel tempo di nascita di 12 anni esatti, è stata una felice intuizione inserita nel programma della stagione. La serata musicale, dettata dal maestro e virtuoso violoncellista, Enrico Bronzi da Parma, si è aperta con la Sinfonia in tonalità sol maggiore Wq183/4. Il prolifico Emanuel ha trovato nuovo vigore e luce con Bronzi e la Strumentale, di fronte al pubblico amorevole nella sua composita presenza, sicché la Sinfonia s’ascolta attraverso le sequenze dei tre tempi musicali di brillante tonalità, dove spiccano oboe e flauto. Segno manifesto di una “Sensibilità” creativa che daranno modo ai grandissimi di apprezzarlo e trarne spunto. Nell’espressività e nel contrasto tra il violoncello e l’impianto orchestrale del Concerto in la minore Wq 170 sono rintracciabili, come nell’aspetto brillante del successivo in la maggiore, presentato nella seconda parte in programma, aspetti innovativi, per i tempi, rivoluzionari al contrappunto barocco. S’intravede qui il nascente movimento estetico del “Sturm und Drang” letteralmente “tempesta e assalto”, ripreso da Haydn e sviluppato dai suoi successori. Il numero delle sinfonie attribuite ad Haydn sono incerte ma sicuramente oltre le cento, perciò composte ad un ritmo davvero strabiliante, conoscendo l’abbondante repertorio artistico che il compositore austriaco ci ha lasciato. A molte di queste, scritte ad Esteràz, appartiene la sinfonia “Gli addii” in fa diesis minore, numerata come 45, unico esempio in tale tonalità tra l’enorme quantità scritte dai musicisti di quell’epoca. La tonalità romantica si scioglie alla fine nell’incorreggibile ironia di Haydn che riduce l’organico orchestrale al dialogo finale di due violini, mentre l’impianto era ancora impostato in origine da due oboi, due corni, fagotto e archi. Tutti gli altri escono dalla scena materialmente, provocando un buffo effetto scenico. L’idea di questa famosa scelta rimane legata alla leggenda, ma un certo dissenso dal principe magnate per l’eccessiva rigidità e pretese, è probabile che Haydn lo abbia così lasciato manifestare. Di certo il compositore, ebbe buongusto nella protesta; meno l’ebbero i suoi coevi, anni dopo, nel proporre delle sfumature alte alle incipriate parrucche di nobili ed alto clero.

Mutatis mutandis, cioè cambiate le cose che si devono cambiare: quel secolo terribile generò grandi in ogni campo. La musica non fece eccezione. Concerti e sinfonie sono ascoltate ancor oggi nel teatro del Politeama Pratese e non solo.  f.J. Haydn